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Van Halen – Van Halen

Quanta strafottenza, quanti giochetti e quanto sfoggio di abilità chitarristica si possono sopportare prima di lasciare perdere? Deve esserci un limite, no?

Però se si è (pre)disposti ad accettare quello che combina Jimmy Page in The Song Remains The Same, probabilmente il debutto dei Van Halen potrebbe risultare abbastanza agile.

Con la differenza che il suono della sei corde dei Led Zeppelin non tracima mai in numeri puramente circensi, mentre l’approccio di Eddie Van Halen sembra farlo spesso e volentieri.

Non un nome qualunque, quello di Jimmy Page: Eddie – nato ad Amsterdam, trapiantato ancora ragazzino a Pasadena – aveva perfezionato la sua tecnica di finger tapping proprio cercando di imitare Page. A caso, preso dalla frustrazione aveva iniziato a sbatacchiare nervosamente le dita della mano destra sul manico della sua chitarra. Non fu lui ad inventare questo stile, la cui paternità va attribuita a Steve Hackett dei Genesis, ma fu certamente il primo a dominarlo ed elevarlo a vera e propria arte.

Reclutò il fratello Alex alla batteria, Michael Anthony al basso e soprattutto mise al microfono un tizio pirotecnico di nome David Lee Roth: fu così che la band iniziò a scatenare l’inferno nei locali di Los Angeles a metà anni ’70; si battezzarono Genesis (…), poi Mammoth e alla fine scelsero semplicemente Van Halen, sulla falsariga dei Santana.

Attirarono l’attenzione di Gene Simmons, che se ne innamorò a tal punto da portarli a registrare una demo; lasciò perdere ogni coinvolgimento quando il management dei suoi Kiss gli suggerì di tirarsene fuori perché sarebbe stato un fallimento. Invece loro ce la fecero, si assicurarono un contratto con la Warner Bros. e sfornarono subito un album che si infilò al 19° posto in classifica negli States.

Euruption è il punto focale di Van Halen: c’è praticamente solo la chitarra di Eddie, un bagliore elettrico di 1’43” a velocità folle che manipola toni, feedback, distorsioni e plana in fade out; un numero incredibile e sfacciato che sta al rock’n’roll, in quel momento, come l’urlo del t-rex che afferma la supremazia sulle altre bestie preistoriche.

Funziona molto meglio dove queste abilità spettacolari sono messe davvero al servizio dei brani – Runnin’ With The Devil, You Really Got Me (secondo Ray Davies una versione superiore all’originale dei suoi Kinks), Ain’t Talkin’ ‘Bout Love – e in quegli episodi in cui la band si dimostra in grado di padroneggiare armonie e melodie di tradizione beatlesiana (Jamie’s CryingFeel Your Love Tonight).

Altrove, appunto, la sensazione predominante è che sia costruito solo per fare da sfondo a brutali esibizioni di superiorità strumentale.

Ad oggi Van Halen ha venduto più di dieci milioni di copie. Dura poco più di mezz’ora, il tempo che ci vuole a fare a pezzi ogni convenzione e convinzione su cosa si possa tirare fuori da una chitarra – imprimendo alla storia dello strumento un’accelerazione in stile hyperdrive di Guerre Stellari – creare un culto, riaccendere l’anima più edonista e dissoluta  della west coast, surclassare ogni altra band hard rock e (purtroppo) modellare l’hair metal che avrebbe dominato gli anni ’80.