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David Bowie – Bowie At The Beeb

Di fatto, Bowie At The Beeb (2000) racconta la transizione di David Bowie da bizzarro cantautore post-swingin’ London a dio sceso in terra del glam rock.

La prima parte di questa raccolta mette insieme le registrazioni che vanno dal maggio 1967 al giugno 1971 per il Dave Lee Travis Show, per Sound Of The 70s e per i programmi condotti allora da John Peel, cioè Top Gear, Sunday Show e In Concert.

In qualche modo è la parte meno interessante – o meno epica – di Bowie At The Beeb.

Di Bowie, qui, spiccano soprattutto la personalità e la poetica (ed anche la scelta di presentarsi con una line-up di 14 elementi condotta da Tony Visconti, per Top Gear), ma spesso i brani sono quelli che poi la storia avrebbe svelato come minori e tutto sommato semplicemente formativi (l’elenco è lungo: London Bye Ta Ta, Karma Man, Let Me Sleep Beside You, Janine, God Knows I’m Good, Crygnet Committee, Wild Eyed Boy From Freecloud, Looking For A Friend, Bombers, Unwashed And Somewhat Slighlty Dazed), oppure affascinanti ma pur sempre di secondo piano (la notevole In The Heat Of The Morning, Amsterdam, Memories Of A Free Festival, Kooks).

È, insomma, il Bowie dei primi tre album, quello del quale in realtà il mondo, a ragione, ricorda soprattutto (solo?) Space Oddity (presente, ma proviene da una session del ’72) e The Man Who Sold The World (assente).

Bowie At The Beeb inizia farsi più vivido sul finire di questa prima parte – quando per In Concert, nel giugno del ’71, vengono presentate Kooks (che avrebbe trovato posto su Hunky Dory sei mesi più tardi) e It Ain’t Easy (destinata a Ziggy Stardust l’anno successivo) – e poi decolla nella seconda metà, una volta passate le evitabili The Superman e Eight Line Poem.

I brani da lì in poi mettono insieme le quattro esibizioni per la BBC dal gennaio al maggio ’72 e, in quel misero pugnetto di mesi, lo scarto è decisivo – tanto che non è chiaro se è il passato a non essere mai esistito o è Bowie ad essere stato scaraventato nel futuro.

Hang On To Yourself anticipa di quasi un lustro i Sex Pistols, le due versioni di Ziggy Stardust sono una meglio dell’altra e la chitarra di Mick Ronson da sola fa stracciare le vesti, tra una Queen Bitch scapigliata, una Suffragette City che promette cose indicibili e una Moonage Daydream in cui la sezione ritmica suona come un martello su una confezione di uova – e poco più tardi rende Starman quasi un numero da Motown. Poi, tra le tante acrobazie, probabilmente basta Changes per comprendere di quale talento vocale fosse dotato Bowie.

In questo tripudio trovano anche posto I’m Waiting For The Man e White Light / White Heat dei Velvet Underground, ad azzerare la distanza tra Londra e i bassifondi della Grande Mela – d’altra parte, proprio nell’agosto di quel 1972, Lou Reed Sarebbe sbarcato nella City per registrare il suo Transformer con l’aiuto di Bowie e Ronson.

Bowie At The Beeb è un documento storico, certamente. Ma è soprattutto come seguire la traiettoria di un fuoco d’artificio, da che sembra una scia qualunque nel cielo a quando esplode meraviglioso e abbagliante lasciando tutti noi quaggiù a bocca aperta.