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George Harrison – The Concert For Bangla Desh

Introducendo The Concert For Bangla Desh (così nella dizione originale), George Harrison si preoccupa di chiedere al pubblico un po’ di pazienza e concentrazione.

Sa bene che la gente si è riunita lì – New York, Madison Square Garden, primo giorno dell’agosto del 1971 – soprattutto per lui e per il cast eccezionale, di amici / artisti, che ha promesso di trascinare in scena.

Il cartellone dice ci sarà Ringo Starr, e due (ex) Beatles sul palco insieme non si vedevano da quando i Fab Four avevano smesso di suonare dal vivo nel ’66; che ci sarà Eric Clapton, novello solista; dice che si scomoderà persino Bob Dylan, uno che dal vivo su suolo USA manca da cinque anni buoni; annuncia anche, il cartellone, tutta una serie di nomi (inevitabilmente) di secondo piano ma (altrettanto inevitabilmente) gustosissimi: Leon Russell, Billy Preston, Ravi Shankar, i Badfinger sparsi in giro a rinforzare le fila di una backing band che può contare (tra gli altri) anche sul basso di Klaus Voormann e sul leggendario batterista Jim Keltner, oltre che sulla meravigliosa sezione di fiati degli Hollywood Keys. Ci saranno le telecamere, e Phil Spector ha portato direttamente un’intera orchestra per replicare il suo wall of sound dal vivo.

Per dire: è appena l’ottavo mese del ’71 e già l’evento è (testualmente) the greatest concert of the decade. Quindi forse poco conta, per le persone che sono accorse, il vero motivo di questo spettacolo messo su in fretta e furia e con un po’ di approssimazione. Il dramma umanitario del Bangladesh è più che altro un’ottima scusa, simboleggiata da quel bambino malnutrito e avvizzito che poi finirà anche sulla copertina dell’album dal vivo e che (intanto, però) sta anche proprio su quel cartellone (pur se ancora più piccino, come un santino incollato lì quasi per caso).

Questo, appunto, Harrison lo sa bene quando mette piede sul palco. Tutte le persone in platea e sugli spalti: lui le ha attirate lì, ancora in realtà non si capisce se Dylan ce la farà davvero o cosa, e comunque adesso sta per propinare loro un’incipit fatto di una ventina di minuti di sola musica indiana. E quindi sì, chiede calma e concentrazione. Dice lo sapete, la musica di quel luogo lontano è più profonda, richiede attenzione. Grazie di esserci, ora però Ravi Shankar e i suoi sollazzeranno anzitutto la vostra spiritualità. Abbiatene e abbiate rispetto.

Nel suo preambolo sembra poi di poter cogliere un altro fattore: una sorta di insicurezza. Harrison desidera che quella musica sia apprezzata, vorrebbe che il pubblico capisse, aprisse la mente. Aveva portato quello spirito e quei suoni nei Beatles (Within You Without You, Love To You, Norwegian Wood…), di lì alle masse, e il suo sguardo verso oriente aveva aperto un intero filone nella scena psichedelica di fine ’60. Eppure ora, sul palco del Madison Square Garden, pare mosso da un dubbio: sarà stato abbastanza?

Ravi Shankar rafforza i concetti già espressi da George e poi viene applaudito appena i suoi finiscono di accordare gli strumenti. Al che lui risponde, intriso di sprezzante umiltà passivo-aggressiva: «grazie. se vi è piaciuta così tanto l’accordatura, spero apprezziate ancora di più quello che suoneremo». Segue un quarto d’ora (abbondante) applaudito trionfalmente, che alle orecchie educate di oggi non pare poi così estremo.

Harrison prende la scena per i successivi tre brani, che tira fuori dal fresco All Things Must Pass: Wha-Wha, My Sweet Lord e Awaiting On You All. A spiccare sono soprattutto la sua voce e la forma stratosferica della band che lo accompagna; da questa emergono prima Billy Preston per That’s The Way God Planned It – e allora sembra sì di assistere ad una di quelle funzioni del sud, con il coro e la gente infervorata tra i banchi – e poi Ringo Starr per la sua It Don’t Come Easy, ché ancora oggi se proprio bisogna sceglierne una dal suo catalogo è proprio quella lì. Il gran finale della prima parte è il brano più atteso, While My Guitar Gently Weeps, che data l’occasione vive anche (molto) dell’estro di Clapton.

La seconda parte si apre con Leon Russel ad intrattenere la folla con Jumpin’ Jack Flash degli Stones e Youngblood di Doc Pomus, ma (soprattutto quest’ultima) sembra un momento evitabile, finché Here Comes The Sun – e qui Harrison è tutto solo – riporta un po’ d’ordine prima dell’ingresso dell’ospite più atteso.

Bob Dylan sembra sapere subito cosa e come fare, nonostante appunto la sua presenza sia stata in dubbio fino a quel momento: il suo set scarno (chitarra-armonica-voce e quel poco di più è soprattutto occasionale), è una boccata d’aria fresca. Apre con A Hard Rain Is A-Gonna Fall e chiude con Just Like A Woman. Brividi, perché sembra cantare sussurrando nell’orecchio di ciascuno dei presenti ed anche di chi a The Concert For Bangla Desh si approccia su disco. Il pubblico è in visibilio e Harrison rincara la dose con Something in versione (quasi) gospel.

Sarebbe una chiosa perfetta invece lui stesso ci mette Bangla Desh, il singolo lanciato poche settimane prima per l’occasione. Doveroso, ma magari in un altro momento perché lì in coda è un potente anti-climax buono solo per ricordare al pubblico la ragione di quel raduno.

The Concert For Bangla Desh fu frutto di buona volontà, buoni sentimenti, grande arte, molta improvvisazione (forse inevitabile). Ravi Shankar chiese una mano a George Harrison, in realtà pare senza chissà quali pretese (se non un po’ di visibilità su quei fatti tragici e lontani dalla comune percezione), ma lui rispose così – con quello che (visto oggi) è a tutti gli effetti il prototipo dei giganteschi live di beneficienza come il Live Aid del 1985 e il Live 8 del 2005.

Fu l’album dell’anno ai Grammy Awards del 1973 e fu anche anche una sorta di peccato originale, perché da allora poche cose nel mondo dello showbiz hanno in realtà diviso come eventi del genere, tra chi se ne è fatto paladino, genuinamente convinto della loro efficacia / utilità, e chi li ha visti soprattutto come trionfo di ipocrisie e vanità.