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Muddy Waters – At Newport 1960

Le cronache riferiscono che quella del 1960 fu un’edizione del Newport Jazz Festival particolarmente tormentata.

Organizzata per la prima volta nel ’54, nel tempo la manifestazione aveva attratto sempre più gli entusiasmi del pubblico e teneva meravigliosamente botta ad alcune difficoltà logistiche ed alla diffidenza degli autoctoni, borghesi che faticavano ad accettare il fatto che la loro amata cittadina si riempisse di rozzi teenager e addirittura di negri (e per ben tre giorni all’anno!).

La situazione sfuggì di mano sabato 2 luglio, quando in centinaia non riuscirono ad entrare al festival e allora riversarono la loro frustrazione su qualunque cosa capitasse a tiro per le strade. Dovette intervenire la guardia nazionale e la polizia arrestò 200 persone solo quel giorno.

A quel punto le esibizioni previste per il pomeriggio successivo rischiavano di essere cancellate in nome della pace sociale.

Qui il confine tra la cronaca e la leggenda diventa molto labile: si racconta ancora che fu il promoter George Wein a convincere il consiglio comunale a non annullare tutto, mentendo.

Raccontò che quelle performance sarebbero state registrate dalla United States Information Agency con lo scopo di diffondere la cultura americana nel mondo, e ai piani alti si convinsero.

Fu grazie a questo stratagemma – pare – che allora domenica 3 luglio riuscirono a salire sul palco Otis Spann, John Lee Hooker e infine Muddy Waters.

L’atmosfera era ancora così in bilico che la sua esibizione chiuse con Goodbye Newport Blues, un poemetto improvvisato, scritto d’impulso dal drammaturgo Langston Hughes, dedicato al festival che forse non si sarebbe mai più tenuto. Non è più nemmeno il protagonista a cantare, la voce è quella di Otis Spann.

Muddy Waters era arrivato esausto alla fine del set e il live che ne fu ricavato, At Newport 1960, lo giustifica appieno.

Aveva iniziato con un brano nuovo di zecca, I’ve Got My Brand On You, per poi passare a quello che già allora era un classico: Hoochie Coochie Man. Please Don’t Go è solo un accenno della frenesia che sarebbe stata di lì a poco.

Più che lenta, Soon Forgotten è cadenzata come passi in una palude stagnante; di seguito, Tiger In Your Tank sbuffa inquieta come un treno verso la grande città luminosa, I Feel So Good è un preludio di gioia al vertice emotivo e sonoro dell’esibizione: I’ve Got My Mojo Working.

Qui Muddy Waters e i suoi si lanciano a perdifiato in una performance esaltante, rumorosa e fracassona, che trascina il pubblico in un epico botta e risposta.

Si chiude così, salva appunto Goodbye Newport Blues, ma Muddy Waters è ormai altrove. Esaurito, un passo indietro per lasciare il microfono a Otis Spann, nelle orecchie ancora il frastuono della sua band (James Cotton all’armonica, Tat Harris alla chitarra, lo stesso Spann al piano, Andrew Stevenson al basso e dietro le pelli Francis Clay).

Cinque anni più tardi, su quel palco Bob Dylan sarebbe stato accolto da sonori fischi per essersi presentato in veste elettrica, “tradendo” le sue radici folk. Aveva svoltato, influenzato dal suono (tra gli altri, dei Beatles) e dei Rolling Stones, che nel frattempo avevano invaso gli States.

È la chiusura del cerchio: At Newport 1960 è il blues elettrico ed irrequieto che quei ragazzini bianchi avevano ascoltato e fatto proprio.