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Alex Chilton – Free Again: The “1970” Sessions

OV-13_Chilton_Free_AgainPubblicato all’inizio di quest’anno, Free Again: The “1970” Sessions raccoglie quella manciata di canzoni registrate da Alex Chilton a metà strada.

Sfinito dal precoce successo planetario dei Box Tops, che spopolarono nel 1967 con The Letter (tra l’altro, una delle molte canzoni rese tronfie da Joe Cocker nel suo Mad Dogs & Englishmen – il cui successo è ancora inspiegabile), Chilton a vent’anni tondi tondi non aveva, come molti della sua generazione, assolutamente idea di cosa fare.

Era anche lui a suo modo un reduce, come moltissimi di quelli che avevano intonato The Letter lì dove era diventata una cantilena grezza ed incessante: in Vietnam («well, she wrote me a letter said she couldn’t live without me no mo’ / listen Mister, can’t you see I got to get back to my baby once mo’..»).

E così, nella sua Memphis, senza troppe pretese registrò queste, che sono molto più che demo: sono canzoni fatte e finite, ma mai pubblicate. Solo con la sua morte, due anni fa, qualcuno si è preso la briga di levare via la polvere (la Omnivore Records). Ed è uno di quei casi in cui la mossa è si è rivelata azzeccata (artwork angelico/tombale a parte, s’intende).

Brani mai pubblicati perché Chilton di lì a pochi mesi metterà insieme i Big Star, capostipiti del power pop, folgoranti, folgorati e seminali – anche se ancora sono più le persone che ne leggono tra i migliori 500 dischi di sempre che quelle che realmente li hanno ascoltati.

Una raccolta di canzoni che oscilla continuamente tra l’intimismo (All We Ever Got From Them Was Pain, The EMI Song), leggerezza sixties (The Happy Song, Free Again), cazzonaggine (Sugar, Sugar / I Got The Feeling, la rilettura di Jumpin’ Jack Flash – peraltro ben riuscita) ma soprattuto anticipa i toni di quelli che sarebbero stati i Big Star e la loro elettricità contagiosa e sfacciata (Come On Honey, Something Deep Inside, I Can Dig It, Just To See You).

Embrioni insomma.

Ma fondamentali anche per capire da dove è sbucata fuori una delle band più importanti degli anni ’70 e che razza di genio fosse Alex Chilton, morto ad un passo dalla reunion dopo anni di oscurità.

Morto dopo aver vissuto (anzi, vivendo ancora) il suo sogno di ragazzino che voleva conoscere Elvis – per lui non solo un mito, ma eroe del cortile accanto -, una persona così importante per la musica e la cultura tutta di Memphis e degli States da essere ricordato, il giorno dopo, a Washington, al Congresso, con l’inedita scena del rappresentante dello Stato del Tennesee che parla di lui con la voce rotta dalla commozione.

Lo dicevano anche i Replacements, che lo idolatravano, in Alex Chilton: «children by the million sing for Alex Chilton when he comes ‘round / They sing “I’m in love. What’s that song?/ I’m in love with that song  – era un genio contagioso – and if he died in Memphis, then that’d be cool, babe».

Profezia rispettata.

«I never travel far, without a little Big Star»

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