Non esiste Beyoncé che tenga: è Cupid Deluxe il disco pop dell’anno, quello a cui il mondo dovrebbe davvero prestare attenzione, quello la cui facilità dovrebbe correre di orecchio in orecchio.
Ma sappiamo bene che se non succede – se questa seconda prova a firma Blood Orange rimane circoscritta a fenomeno di culto – non è (solo…) per la sua disturbante copertina.
Sarà piuttosto perché il mondo non è più abituato a scovare l’arte nella fruibilità e si fa un sacco di confusione tra difficoltà e profondità.
E questa magnificenza non sta semplicemente
nell’assolo di sax su cui scivola via Chamakay; nella migliore reincarnazione di Prince da più di vent’anni (e il refrain irresistibile e soffuso) di You’re Not Good Enough; nello strappo incredibile a 2’30” di Uncle ACE; nel ritmo saltellante e la voce celestiale di No Right Thing; nello spoken sensuale di Chosen; in Clipped On che flirta con gospel e hip hop vecchia scuola old; nell’improbabile cover dei Mansun che apre l’ultima parte dell’album (I Can Only Disappont U, qui Always Let U Down); nel nostalgico ritorno a casa di High Street, in compagnia di Skepta.
E non è nemmeno perché qualche giorno fa tutta la casa di Devonté Hynes (già: lui è Blood Orange e lui era Lightspeed Champion) è andata in fiamme e con essa strumenti, frammenti di musica e soprattutto il povero cagnolino Cupid ci ha rimesso la vita, no. Si trattava di un album toccante ed intenso prima che tutto questo venisse alla ribalta.
Non è da tutti (anzi è dono di pochi) riuscire a mischiare Prince e Michael Jackson (ma anche Lionel Ritchie), coniugare la loro estetica al battito urbano e profondo della subway newyorkese: Devonté con questo album c’è riuscito, aggiungendo una sensibilità personale che fa paura. Chiamatela attitude, chiamatela semplicemente soul, comunque chepeau.
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