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Blur – Think Tank

20090329_banksy_blur_think_tank-1-590x590All’alba del nuovo millennio i Blur venivano dal loro album più scuro (13, pubblicato nel 1999) e Damon Albarn stava assaporando i primi fasti della sua vita post-britpop grazie al successo planetario dell’esordio dei Gorillaz; non pago, aveva preso a girare per l’Africa registrando una miriade di suoni “nuovi”.

Nessuno era in grado di dire se e quando la band sarebbe mai tornata a registrare e con il passare del tempo la cosa iniziò a farsi pesante: ma mentre Alex James si limitava (per così dire) ad additare l’intero progetto Gorillaz come una schifezza (ovviamente a mezzo stampa), Graham Coxon aveva a che fare con alcol e depressione, e zigzagava da una terapia all’altra.

Finché, messi insieme i cocci con molta fatica, sul finire del 2001

«Arrivammo in studio alle 11 – ha raccontato anni dopo Albarn – e Graham era un po’ in ritardo; poi pensammo che si fosse dimenticato dell primo giorno di lavoro. A fine giornata capimmo che non si sarebbe mai fatto vedere: fu uno shock per il nostro microcosmo»

I Blur continuarono senza Coxon, inviandogli il materiale che stavano registrando: lui per tutto il 2002 appariva e scompariva, lavorando ogni tanto su qualche frammento sonoro, finendo per essere licenziato. Dopo un annetto di gestazione londinese, i lavori per quello che sarebbe diventato il settimo disco dei Blur si spostarono a Marrakech, dove i tre (oltre i produttori Ben Hillier e Fatboy Slim) arrangiarono uno studio mobile in un riad immerso tra gli ulivi: una specie di Exile On Main Street in versione berbera.

Leggenda vuole che in quel mese di ottobre accadde di tutto: dissenteria, visioni mistiche, orchestre andaluse che inventavano melodie senza nemmeno uno spartito (quelle di Out Of Time, ad esempio), trattori percossi con sbarre metalliche (e altri casini sonori finiti su Crazy Beat), cori registrati all’aperto.

Da questa trasferta in Marocco e dai successivi ritocchi londinesi è nato Think Tank, ad oggi ultimo e miglior disco dei Blur.

L’intero artwork è firmato da Banksy, ed è la perfetta introduzione ad un universo in cui collimano infinite tristezze, momenti di spaesamento terzomondista e spunti improvvisamente punk. Coxon alla fine c’è, pochissimo ma si sente: l’unica traccia che porta anche la sua firma è la chiusura Battery In Your Leg, con quella chitarra barcollante di delay, infinita e semplicemente perfetta.

Il tema principale di Think Tank sono i rapporti umani: molto è riconducibile alla relazione (allora) più che mai travagliata tra Albarn e Coxon, ma c’è di più. E’ un disco che esprime, nella musica e nel linguaggio, l’esigenza di riallacciare, connettere, cercare un collegamento profondo tra individui, una reazione allo sfaldarsi delle relazioni sociali così come sono sempre state e al loro mutare in qualcosa di digitale, globalizzato e spesso impalpabile.

Un sentire più intimo in controtendenza rispetto alla confusione generata dall’immediatezza, dal costante flusso di dati, informazioni, persone che ci avvolge: Think Tank riporta l’individuo al centro del mondo, come singolo e come collettività. Muovendosi da microsismi (Moroccan Peoples Revolutionary Club) cerca di risvegliare qualcosa che stiamo perdendo: l’attenzione (Out Of Time),  un vivere sincero e pieno (Brothers And Sisters, Sweet Song – quest’ultima è l’unica traccia finita su Think Tank sulla quale mise le mani anche un terzo produttore, William Orbit, pur se il suo lavoro era stato molto più articolato), o – molto banalmente – lo stupore (jets are like comets at sunset!).

Ne esce l’album più involontariamente ambizioso e riuscito dei Blur, tenuto insieme da un eclettismo (mai più ritrovato) che non va a scapito della facilità di ascolto. Rimane, ad oggi, dieci anni dopo, il loro ultimo disco: i Blur ci sono ancora (fortunatamente non è finita così, o almeno pare), Coxon e Albarn sono tornati a parlarsi, ma evidentemente questo non basta per tornare davvero a registrare.

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