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Death In Vegas – Scorpio Rising

In molti hanno avuto l’ambizione di fondere rock’n’roll e rave, sulla scia dell’insegnamento visionario di Tomorrow Never Knows – i Death In Vegas vanno messi nella lista di quelli che ci sono riusciti.

Peraltro non una volta sola, perchè prima di Scorpio Rising è stato con The Contino Sessions.

Ma quello era un album dalle venature lercie, crepuscolari e tossiche. Scorpio Rising ripropone la formula dei guest vocalist, raddoppiandola, e trae forza dalla sua multiforme schizofrenia.

A tratti è come se i Death In Vegas non esistessero, come fossero una backing band. Ma sarebbe una lettura superficiale e quasi denigratoria del ruolo di Richard Fearless e Tim Holmes come architetti, scenografi, registi, sarti delle scene sulle quali si muovono di volta in volta i loro ospiti e dei vestiti che indossano.

Leather e Girls sono un tutt’uno ed è un inizio estatico, fatto di ammiccamenti alla velocità ed ai respiri più eterei dei My Bloody Valentine.

È il decollo, lo scheggiare veloci sul cemento gommato della pista e poi trovarsi in un attimo a mezz’aria senza neppure accorgersene. E poi prendere definitivamente quota – accade con Hands Around My Throat, la sua leggera ossessività kraut, che è soffice e pericolosa, un continuo chiaroscuro che tracima in 23 Lies, una gemma dolce e docile che mette in primo piano la voce di Susan Dillane circondandola di chitarre a penzoloni e riverberi nuvolosi.

Ci si desta poi su Scorpio Rising, solo per scoprire che ai comandi ora c’è Liam Gallagher e che la direzione è un trip tra dinosauri di carta e Status Quo (loro il riff principale, è quello di Pictures Of Matchstick Men).

L’indirizzo psych prosegue in Killing Smile, mutano solo le coordinate che ora sono ben più trasognate. È il risultato dell’aver messo insieme un arpeggio di derivazione folk, la voce infinita (ed immediatamente perfetta) di Hope Sandoval e gli arrangiamenti orchestrali del violinista indiano Dr. Subramaniam.

La successiva Natja vale più che altro come un intermezzo spaesante, perché proprio quando sembrerebbe che i Death In Vegas si siano messi al centro della scena arriva Paul Weller con una rivisitazione di So You Say You Lost Your Baby di Gene Clark che sta da qualche parte tra il technicolor dei sixties, qui, l’est del mondo ed il retrofuturismo di Kubrick.

È così che ci si avvia verso la conclusione, con Dot Allison che racconta di un’agonizzante libertà in Diving Horses e Help Yourself (in cui fa ancora capolino Hope Sandoval) che sembra fare il verso all’intero viaggio, mettendo insieme orchestrazioni degne di Hollywood, spunti beatlesiani e percussioni in un gran finale che è un turbine mistico/estatico molto degno di quanto vissuto fin lì.

Nella sua relativa semplicità, Scorpio Rising porta con sé la bellezza della contaminazione, la gioia della leggerezza e l’incanto della scoperta. Difficile non considerarlo un grande album.

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