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Kurt Vile – Wakin On A Pretty Daze

kurt-vile-wakin-on-a-pretty-dazeCi sono persone a cui lombrosianamente non daresti un centesimo.

A vederlo così, con i lunghi capelli sugli occhi, le spalle curve e quella faccia da adolesecente fattone e sfigato dei telefilm sulle high school americane anni ’90, ad uno come Kurt Samuel Vile non daresti nemmeno la spazzatura da portare da casa al bidone. E invece è uno dei più convincenti cantautori rock degli anni 2000.

Dopo il meraviglioso Smoke Ring From My Halo del 2011 non era facile mantenersi ai livelli eppure con Wakin On A Pretty Daze il trentenne di Philadelphia sembra addirittura migliorarsi.

L’album è una sequenza di brani da pomeriggio estivo, di quelli in cui il caldo afoso e l’umidità ti fanno sudare anche i bulbi oculari e i grilli friniscono come un concerto di motoseghe. 11 tracce in cui ci si squaglia di piacere e calore (Was All Talk), immersi in intrecci di chitarre ipnotici e collosi. Un disco che flirta con la psichedelia e non solo quando le tracce superano abbondantemente i 5 minuti (Wakin On A Pretty Day e Too Hard sfiorano i 10 minuti raggiunti dalla conclusiva Goldtone), che ricorda gli Air cosmici di Moon Safari negli inserti tastieristici di Girl Called Alex e culla nell’indolenza di ballate come Never Run Away e Air Bud.

Tutto è luce, riflessi acceccanti (metallici in KV Crimes, acquatici in Too Hard) e melodie dolci, dense e liquide come golose coppe gelato che gocciolano al sole. Anche quando i riferimenti sono invernali, come nel capolavoro Snowflakes Are Dancing, è la luce calda del tramonto a scaldare anima e corpo.

Leggermente fuori da questo contesto, ma sempre notevoli, i tagli di Pure Pain e la strascicata Shame Chambers che riporta al miglior Badly Drawn Boy.

Portentoso l’accompagnamento dei Violators, che si aggiunge al già strabordante polistrumentismo di Vile. La voce è come sempre indolente e quasi infastidita, sembra si sforzi pur emergendo solo di rado dal polposo tessuto sonoro che la avvolge.

Da un punto di vista testuale, si leggono riferimenti autobiografici, in particolare sulla condizione di artista e uomo (KV Crimes), con autoironia e un’amarezza che ispira la poesia di alcuni passaggi per i quali non basterebbe un’altra recensione.

«Life is like a ball of beauty that makes you wanna just cry, then you die», recita Too Hard. Tanto per capirsi.

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