Dischi

Spoon – Kill The Moonlight

Non che Girls Can Tell avesse fatto il botto in termini di vendite, ma il feedback di critica e pubblico era stato estremamente positivo: a buon titolo, gli Spoon avevano di nuovo un futuro.

Britt Daniel voleva cambiare aria per un po’, allontanarsi dal Texas, e conosceva un tale che conosceva un tale che conosceva un tale che per l’estate avrebbe lasciato libero il suo appartamento nella ridente New London, Connecticut. Allora colse l’occasione, partì per una vacanza random e la passò a «guardare film, uscendo di casa solo per andare al videonoleggio o al ristorante cinese».

Nell’isolamento, iniziò anche a lavorare su alcune demo con l’idea di pubblicare alla svelta un nuovo disco e ben presto si ritrovò a pensare di voler «rendere le cose un po’ più strane».

Da un simile intento programmatico nacque Kill The Moonlight, un album che brilla di minimalismo pratico.

E se mettendo su Girls Can Tell viene facile l’accostamento al pop di matrice sixties, risputato fuori in senso post-modernista, qui saltano fori tutte le altre influenze – quelle, appunto, più bizzarre: dalla film music al krautrock di Can e NEU dai SuicideJulian Cope; dal Bowie berlinese al successivo, redivivo Iggy Pop e via così.

Produce ancora Mike McCarthy, le chitarre non sono più portanti ma affogate tra innumerevoli, inusuali e densissime tessiture sonore; domina l’elemento percussivo, sia esso dato dal drumming di Jim Eno, piuttosto che dall’onnipresente tamburello, o semplicemente dal modo in cui ogni strumento viene usato o ogni suono creato – il che vuol dire soprattutto dal piano (e le sue diverse varianti).

Apre le danze Small Stakes e la voce di Daniel arriva dal fondo delle scale, il piano elettrico è un’ossessione, sullo sfondo sta una sarabanda di spettri fracassoni. È una introduzione grandiosa – ed effettivamente i brani con cui gli Spoon hanno via via deciso di iniziare ciascuno dei loro album meriterebbe una trattazione a parte.

The Way We Get By, subito dopo, apparentemente riconduce su binari più usuali. È così più che altro per l’ammontare di parole sputate fuori, per la melodia istantanea, gli handclaps e quant’altro, ma appunto le chitarre sembra praticamente di non sentirle.

Eppure fu proprio The Way We Get By ad essere licenziata in diverse serie televisive (The O.C., Shameless su tutte) e film (Vero Come La Finzione di Will Ferrell) e, quindi, ad innestare il circolo virtuoso che portò gli Spoon definitivamente alla ribalta («stentavamo a sopravvivere come band, io non avevo un vero lavoro – ha raccontato Britt Daniel in diverse occasioni – quindi se qualcuno bussava alla nostra porta offrendoci dei soldi per mettere un nostro brano in tv o al cinema… sì, assolutamente»).

Le sei corde tornano in primo piano per la ritmica di Something To Look Forward To, che sembra più che altro voler masticare se stessa, Stay Don’t Go, che potrebbe stare sul dancefloor se solo gli Spoon avessero deciso di montarcelo su, e Jonathon Fisk – arrabbiata, il protagonista è il bulletto della scuola – dalla quale poi volano via mischiandosi tra i loop che introducono Paper Tiger e che la guidano al contrario assieme allo sbacchettare di Jim Eno; lo fanno in punta di piedi, in una sorta di sogno lucido che nasce e muore in brevissimo tempo.

Someone Something va a rotta di collo, Don’t Let It Get You Down s’agita sinuosa da un canale all’altro, All The Pretty Girls Go To The City è proprio di un’altro decennio, però ridotto all’osso e costruita attorno a riff esuberanti; la tripletta finale You Gotta Feel ItBack To The LifeVittorio E rende al meglio l’idea iniziale.

Kill The Moonlight è fatto di trentasei minuti, che forse valgono più per il loro modo di essere che per i singoli brani che contengono. Un album sghembo, con cui gli Spoon misero in pratica un modo di fare affascinante, giocoso, esuberante, concretizzando l’arte di farsi bastare pochi elementi, scegliendo di solito quelli più strani.