Poco prima di chiudersi, Western Stars infila due brani di una bellezza imbarazzante.
There Goes My Miracle è fatta di una melodia ascendente e meravigliosa, guidata da un’orchestrazione degna del Morricone più efficace; Bruce Springsteen la cavalca, con il trasporto e la convinzione di un crooner consumato. Se è una sconfitta – e lo è – è una sconfitta trionfale.
Immediatamente dopo, Hello Sunshine fonda la sua fortuna sul ritmo folk, gli archi salgono con maggiore lentezza, tra la steel guitar e la voce di Springsteen che sussurra vicinissima. «You know I always loved a lonely town, those empty streets no one around. You fall in love with lonely, you end up that way.. hello sunshine, won’t you stay?».
Western Star fino a qui non aveva mai raggiunto questi livelli di efficacia (se non in Sleepy Joe’s Cafe): There Goes My Miracle e Hello Sunshine sono il suo apice, ma anche il momento in cui diventa un po’ tutto più chiaro.
Si arriva sino a questi momenti come stolti che guardano il dito e non la luna. Distratti dal fatto che il Boss abbia arrangiato questo suo diciannovesimo album con pochi hooks, gonfiandolo di orchestrazioni e (così) ogni tanto sconfinando nel mellifluo. Si rischia di prestare più attenzione al mezzo che alla direzione, insomma.
E la direzione di Western Stars è un crepuscolo da scorgere all’orizzonte di una strada sulla quale Springsteen ha sempre guidato gettandosi a capofitto a dispetto del sole cocente e della sabbia scagliata sul parabrezza.
I suoi personaggi sono scappati da una città piena di perdenti e non sono ancora arrivati da nessuna parte. Girano per spazi infiniti, motel mal frequentati, ferrovie scassate e bar di second’ordine. Conoscono le bene le risposte amare alle poche domande che si pongono, alcuni di loro sono a credito con la fortuna altri evidentemente no («I’m twenty-five hundred miles from where I wanna be, It feels like a hundred years since you’ve been near to me. I guess what goes around, baby, comes around»).
Western Stars ha un cast eccezionale e molto umano, molto spaesato. Ogni brano mette sotto la lente d’ingrandimento uno di questi protagonisti, accomunati dal fatto di essersi trovati alle intemperie dell’esistenza e di aver trovato un modo di sopravvivere. Qualcuno concentrandosi sulla quotidianità, altri cullando sogni ben oltre la soglia dell’irrazionalità.
È un microcosmo di frontiera nel quale – dal particolare all’universale – Springsteen tratteggia ciò che giace dietro la confusione, dietro la sconfitta e le consolazioni alle quali ci si aggrappa consapevoli della loro provvisorietà. Il suo album più umanista.
Poco prima di chiudersi, Western Stars infila due brani di una bellezza imbarazzante.
There Goes My Miracle è fatta di una melodia ascendente e meravigliosa, guidata da un’orchestrazione degna del Morricone più efficace; Bruce Springsteen la cavalca, con il trasporto e la convinzione di un crooner consumato. Se è una sconfitta – e lo è – è una sconfitta trionfale.
Immediatamente dopo, Hello Sunshine fonda la sua fortuna sul ritmo folk, gli archi salgono con maggiore lentezza, tra la steel guitar e la voce di Springsteen che sussurra vicinissima. «You know I always loved a lonely town, those empty streets no one around. You fall in love with lonely, you end up that way.. hello sunshine, won’t you stay?».
Western Star fino a qui non aveva mai raggiunto questi livelli di efficacia (se non in Sleepy Joe’s Cafe): There Goes My Miracle e Hello Sunshine sono il suo apice, ma anche il momento in cui diventa un po’ tutto più chiaro.
Si arriva sino a questi momenti come stolti che guardano il dito e non la luna. Distratti dal fatto che il Boss abbia arrangiato questo suo diciannovesimo album con pochi hooks, gonfiandolo di orchestrazioni e (così) ogni tanto sconfinando nel mellifluo. Si rischia di prestare più attenzione al mezzo che alla direzione, insomma.
E la direzione di Western Stars è un crepuscolo da scorgere all’orizzonte di una strada sulla quale Springsteen ha sempre guidato gettandosi a capofitto a dispetto del sole cocente e della sabbia scagliata sul parabrezza.
I suoi personaggi sono scappati da una città piena di perdenti e non sono ancora arrivati da nessuna parte. Girano per spazi infiniti, motel mal frequentati, ferrovie scassate e bar di second’ordine. Conoscono le bene le risposte amare alle poche domande che si pongono, alcuni di loro sono a credito con la fortuna altri evidentemente no («I’m twenty-five hundred miles from where I wanna be, It feels like a hundred years since you’ve been near to me. I guess what goes around, baby, comes around»).
Western Stars ha un cast eccezionale e molto umano, molto spaesato. Ogni brano mette sotto la lente d’ingrandimento uno di questi protagonisti, accomunati dal fatto di essersi trovati alle intemperie dell’esistenza e di aver trovato un modo di sopravvivere. Qualcuno concentrandosi sulla quotidianità, altri cullando sogni ben oltre la soglia dell’irrazionalità.
È un microcosmo di frontiera nel quale – dal particolare all’universale – Springsteen tratteggia ciò che giace dietro la confusione, dietro la sconfitta e le consolazioni alle quali ci si aggrappa consapevoli della loro provvisorietà. Il suo album più umanista.