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Led Zeppelin – Led Zeppelin IV

Disappunto, stupore, eccitazione: questi i tre sentimenti la prima volta che mi accostai a Led Zeppelin IV.

 Il disappunto. Pietro mi aveva passato un cd-r con su scritto “Led Zeppelin – best of” e un foglietto con i nomi delle tracce. Però poi a casa avevo scoperto che non si trattava di una raccolta dei Led Zeppelin, ma del loro quarto album.

Il che non mi andava affatto bene, perché volevo solo averne un’idea generale, complessiva. I Led Zeppelin erano in qualche modo inevitabili, questo lo avevo capito. Ma non volevo perderci troppo tempo (tantomeno volevo che capitasse di perderci la testa) in un momento in cui la mia passione formativa era decisamente indirizzata verso i Beatles e Springsteen.

Quindi ascoltare un loro album piuttosto che una loro antologia in quel momento faceva tutta la differenza del mondo: cercavo un soddisfacente punto d’arrivo, una scorciatoia, non un potenziale punto di partenza. Per questo ero molto scocciato ancor prima di mettere su quel cd.

Ma insomma, poi andò in modo diverso e quell’errore generò un’esplorazione gioiosa e – sì, proprio come temevo – una nuova passione. Di recente, dopo quasi vent’anni, ho incontrato Pietro e l’ho abbracciato forte, ringraziandolo.

Lo stupore. La prima cosa che mi colpì di Led Zeppelin IV fu che certi brani mi sembravano venuti su dal medioevo. Non so come altro dirlo, certo fa ridere col senno di poi, conosciuta l’origine di The Battle Of EvermoreGoing To California, Four Sticks e ovviamente della prima parte di Stairway To Heaven. Però quella prima impressione mi torna in mente ad ogni riascolto, anche a decenni di distanza: strumenti a corda suonati da gente vestita di iuta, che canta radunata attorno al fuoco nella foresta ai piedi di un imponente castello (ovviamente al crepuscolo o giù di lì).

E ancora, inconsciamente, non mi capacito del fatto che quei brani siano stati composti e registrati in un momento in cui già esistevano cose come automobili, aeroplani, grattacieli, l’uomo sulla luna ed il televisore. Ecco: se i Beatles erano (sono) il technicolor, i Led Zeppelin erano (sono) una monocromia sgranata ed essenziale.

L’eccitazione. Parte del mio stupore derivava anche dalle aspettative che mi ero costruito. Mi ero fatto l’idea – alimentata da plurime letture – che i Led Zeppelin fossero rumorosi, potenti e fragorosi come una bestia preistorica e isterica. E rimasi stupefatto constatando che, per grande parte, Led Zeppelin IV non è così. È molto più subdolo.

La scoperta sconvolgente fu, insomma, che i Led Zeppelin avevano effettivamente l’incedere di un tirannosauro, però si trattava un tirannosauro dalle movenze di una ballerina: terrificante, ma assai leggiadro. E questa scoperta generò una botta di adrenalina sottilissima ma costante che ancora mi prende per molta, moltissima parte di questo album.

Diciamo che nel tempo è diventata più questione di dettagli, però potenti – di quelli che schizzano in mille direzioni diverse attivando sinapsi e destando le endorfine.

I primi, traballanti, secondi di Black Dog (e quindi di tutto Led Zeppelin IV), un attimo dopo la voce di Plant che pare immersa in un’eco evanescente. Poi l’esplosione – o almeno, uno a quel punto si aspetterebbe un gran botto invece è assai contenuta e questo brano diventa in un attimo una sorta di giochi di specchi ritmici: Bonham sembra sempre trattenere per sé una battuta, si va di start/stop continui. Il tono della chitarra di Page è ultra compresso, come ingolfato, nemmeno nell’assolo sembra voler usare per davvero tutte e sei le corde.

L’incipit in medias res di Rock And Roll, che è un boogie sul quale Bonham suona come se tutto il kit gli stesse sfuggendo, smontandosi pezzo per pezzo. Segmenti di chitarra che si rincorrono da un canale all’altro.  Il pianoforte martellato che appare verso i 2’20”.

L’incedere di Four Sticks, che mi ha sempre suggerito un’immagine precisa e altrettanto assurda: il rapido susseguirsi delle ombre dei pali della luce (quelli vecchi, agricoli, di legno fatti a ‘T’) osservato dai finestroni di un treno che schizza veloce lungo una campagna assolata.

Non c’è una parte di When The Levee Breaks che non definirei iconica: dal titolo all’ultimo secondo che sgocciola via. L’intro mistico di Bonham e Jones che gli va dietro dondolando, l’armonica, la chitarra che si distende e attorciglia in quel modo. Il suo break. Ogni volta che piove forte penso a Plant che dice che se continua a piovere, il Levee strariperà e non ci sarà riparo – è un riflesso pavloviano.

Nemmeno vale la pena di menzionare Stairway To Heaven, che in pratica è mitologia alla pari delle divinità dell’Olimpo, se non per dire che a conti fatti, tra tutti i brani dei Led Zeppelin dei quali avevo letto prima ancora di ascoltarli, forse è quello che anche a tanti anni di distanza riesco meno a godermi. Mi è sempre venuto più facile con Whole Lotta Love, per dire. Ma, appunto, siamo nell’Olimpo.

Il mio viaggio, insomma, è partito da Led Zeppelin IV e di lì si è ramificato. Se devo tirare una linea, in un esercizio molto difficile, si gioca testa a testa il primo gradino del mio personalissimo podio con Physical Graffiti – ma rispetto a quest’ultimo ha il vantaggio (probabilmente ineludibile) della brevità e quello dell’affetto della scoperta.