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Led Zeppelin – Physical Graffiti

physical_graffiti_led_zeppelinPubblicato nel febbraio 1975Physical Graffiti è il sesto album dei Led Zeppelin nonché il preferito da Robert Plant e Jimmy Page.

Probabilmente perché quest’ora e venti di musica rappresenta l’apice delle energie creative della band.

Gli infiniti e sfrenati tour di inizio decennio non erano abbastanza, le folle adoranti nelle arene non erano abbastanza, le nuove generazioni che crescevano ascoltando loro e non i Beatles non erano abbastanza, e neppure Houses Of The Holy e la loro pessima reputazione erano abbastanza; persino la Atlantic, che era stata la loro casa madre sin dagli esordi andava stretta: Page, Plant, Bonham e Jones volevano di più, ancora.

Tra il finire del 1973 e l’inizio dell’anno successivo i Led Zep si misero a lavoro sul sesto disco ad Headley Grange, un villone rurale nell’East Hampshire dove già era nato IV, ottenendo in prestito lo studio di registrazione mobile di Ronnie Lane dei Faces.

L’ispirazione arrivò facile e prepotente.

Però, per realizzare il progetto che Jimmy Page accarezzava da tempo – un disco doppio – fu ripescato un po’ di materiale registrato da qualche tempo e lasciato in attesa di collocazione: è il caso della gagliarda Houses Of The Holy (che dava il titolo al precedente album ma non era in scaletta), The Rover (irresistibile e idealista) e Black Country Woman, ma anche di Boogie With Stu (e cioè Ian Stewart) e Night Flight – rispettivamente, la canzone più old fashioned e una tra le più pop (non fosse per la voce sopra le righe di Plant) mai registrate dal gruppo – che provenivano direttamente dalle session del 1971.

I nuovi pezzi ribollivano di energia, come al solito in molti casi pescavano a piene mani dal blues rurale, anabolizzandolo e piegandolo alla sfrenata vena chitarristica di Page (ma anche di John Paul Jones, accreditato alla chitarra per la prima volta proprio su Physical Graffiti): Custard Pie, il suo carico di sconcezze e il suo wah-wah lacerante, riprende Shake’em On di Bukka White e tradizione vuole che In My Time Of Dying sia uno spiritual non sconosciuto a Bob Dylan.

Ma è in in chiusura del secondo lato del primo vinile i Led Zeppelin piazzano i due highlight di un disco a quel punto già epico (non solo per durata, ma anche e soprattutto per qualità): in Trampled Under Foot uniscono un funk derivato da Superstition di Stevie Wonder e liriche ispirate da Terraplane Blues di Robert Johnson per creare un tirannosauro ritmico che si agita al ritmo dei risvolti furiosi della sei corde; in Kashmir uniscono improvvisazioni e arie d’ispirazione mediorientale che Jimmy Page aveva importato dal Marocco (un viaggio ispirato da William Burroughs: impressionato da Black Mountain Side, aveva suggerito al chitarrista di andare direttamente alla fonte di quei ritmi), il tutto si ripete (con meno enfasi ed epica) su In The Light, che apre il secondo dei dischi.

Physical Graffiti, così combinato, è un’esperienza (appunto) fisica, tangibile, sudatissima e mistica: forse solo in Down By The River si veleggia verso atmosfere più placide.

Completato rapidamente nella prima metà del 1974, questo album vide la luce solamente molti mesi dopo: bisognava dare prima un’assestata al business.

I Led Zep fondarono la loro etichetta, la Swan Song, nel cuore di Chelsea. Volarono negli USA per presentarla, vennero facilmente risucchiati dall’ormai consueto vortice di eccessi, frequentazioni più o meno scandalose (gli incontri con Elvis e Groucho Marx, le liaison tra Page, Lori Maddox, Bebe Buell e Pamela Des Barres meriterebbero un’enciclopedia) e, prima di pubblicare Physical Graffiti, dovettero vincere l’isolamento in cui il chitarrista si era rintanato.

Contorno? Mica tanto: la musica dei Led Zeppelin è un poderoso sfoggio di edonismo, dissolutezza, anarchia, follia e genio. Physical Graffiti e il suo minutaggio interminabile all’occhio ma agile all’orecchio hanno perfettamente senso: senza questo improbabile e monolitico agglomerato di brani non guarderemmo a loro come il rock’n’roll.

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