Dischi

Mono – Hymn To The Immortal Wind

Per il loro quarto album i giapponesi Mono decisero di lavorare ancora una volta con Steve Albini, ma anche di prendersi un intero anno per comporre e di investire una buona parte delle risorse per ingaggiare un’orchestra di ventitré elementi anziché utilizzare in una più contenuta sezione d’archi come avevano fatto fino ad allora.

Avevano una visione precisa ed il risultato, Hymn To The Immortal Wind (2009), è roba da rimanerci secchi: un album da salutare come l’incrocio definitivo tra grazia e violenza, orchestrazioni e rumore sonico, capace – per impatto – di far impallidire molti (dai Sunn 0))) ai Mogwai).

Si tratta un concept (o quasi), nel senso che il suono Hymn To The Immortal Wind vorrebbe narrare le avventure di due ragazzi che si incontrano, si perdono e passano entrambi la propria vita nel tentativo di ritrovarsi.

Ma questo tema drammatico concepito da Heeya So e sul quale i Mono hanno basato la loro scrittura, invero, conta poco: difficile rendersi conto del fatto che il disco sia strutturato con in mente capitoli, scenari e snodi narrativi.

È molto più semplice perdercisi, fluttuare sui suoi possenti sbuffi strumentali, sulle orchestrazioni giganti come nuvole temporalesche.

Poco oltre la metà, Pure As Snow (Trails Of The Winter Storm) accelera all’inverosimile e monta, monta, sembra gonfiarsi come più tremendo degli uragani e poi si abbatte con violenza inaudita, a ripetizione, fingendo di aver finito salvo ricominciare con ancora più veemenza, spietatezza e brutalità.

Quello di correre sul filo sottile che separa la calma dal caos più assurdo è un tema costante dei Mono e quel brano è il vertice dell’intera opera; sono rarissimi i momenti in cui non succede, nei quali la tensione non sfoga (Follow The Map), ma quando promettono battaglia, tale è (The Battle To Heaven).

Il fascino di Hymn To The Immortal Wind è anche di natura puramente concettuale: è costruito attorno alla melodia (su tutte, quella della conclusiva Everlasting Light), mai attorno alla voglia di sfoggiare talento strumentale per il puro gusto di farlo; non porta con sé alcun immaginario epico quanto, piuttosto, pare una specie di torbida orchestrazione esistenzialista.

Da ultimo, si tratta di un’ora e poco più nel corso della quale l’apparato uditivo è messo a dura prova; ma il cuore, quello ringrazia.