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The Feelies – The Good Earth

feelies_the_good_earthCo-prodotto da Peter Buck, The Good Earth ha gran poco a che fare con il debutto dei Feelies, ma entrambi gli album tengono fede al propio titolo.

Se Crazy Rhythms (1980), infatti, è un piccolo capolavoro di tempestoso e nervosissimo avant-pop, qui l’atmosfera si fa pastorale ed evocativa.

Il tempo trascorso tra l’uno e l’altro (The Good Earth è del 1986) è di per sé significativo del fatto che Glenn Mercer e Bill Million non avessero preso affatto sul serio le lodi sperticate spese dai critici nel discutere del loro esordio, che peraltro aveva venduto pochissimo, e che anzi non pensassero affatto a dare seguito a Crazy Rhythms: «in quegli anni non abbiamo affatto perso tempo, anzi fu un periodo molto impegnativo con tutti i progetti musicali e le band in cui eravamo coinvolti. Volevamo mantenere una certa distanza dall’industria discografica, volevamo tenere un profilo basso, lavorare a livello locale»; e in più, comunque, l’etichetta discografica spedì al mittente i primi provini del nuovo album, nient’affatto intrigata dal nuovo suono che Mercer e Million stavano imbastendo.

E così i Feelies scivolarono in uno strano limbo fatto di cambi di formazione, cambi di nome (Young Wu, The Trypes, The Willies), concerti su e giù per lo stato di New York, reunion tra i membri originali per suonare Crazy Rhythms, concerti fatti di sole cover… nulla, insomma, che assicurasse la continuità con quanto fatto sino al 1980. O forse sì, almeno nella loro concezione.

Mercer e Million riemersero da questo pastone di esperienze dopo un tour attraverso gli States, con una decina di nuovi brani e dei compagni di viaggio da riunire sotto il nome Feelies: una sezione ritmica tutta nuova (Stan Demeski alla batteria e Brenda Sauter al basso, oltre che Dave Weckerman alle percussioni), una delle principali ragioni della discontinuità rispetto all’esordio.

Quando finalmente arrivarono in studio, scoprirono che Peter Buck era tutto ciò di cui avevano bisogno: un produttore poco invadente, che più che dirigerli li rassicurasse.

Il risultato, The Good Earth, suona come un vasto campo di grano attraversato da fili elettrici. Le sue tessiture countryfolk intrecciano dinamiche nervose, con ritmiche percussive che sembrano sparate fuori da un rodeo (Two Rooms, The Last Roundup), o addirittura marziali (Tomorrow Today), con la voce che gioca sempre a nascondino tra chitarre jingle-jangle (Slipping Into Something) e assoli rivitalizzanti che avrebbero fatto felice Tom Verlaine (On The Roof, The High Road).

I testi di Mercer ben riflettono lo stato di incertezza degli anni appena trascorsi: l’incapacità di scegliere, varie declinazioni dell’infelicità, di quanto sia indispensabile – comunque – continuare a muoversi, andare avanti attraverso tutte le esperienze possibili, come a scacciare ogni altro pensiero («diventa quello che sei, non può essere troppo difficile»).

The Good Earth è – in ultima analisi – un album parecchio affascinante non solamente per la sua particolare genesi, ma perché musicalmente è l’anello di congiunzione tra il suono più arty delle città e quello più rurale delle campagne; sceglie di non scegliere e rimanere sospeso tra la frenesia urbana e la quiete pastorale, il che lo rende unico.

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