Per capire che diavolo siano, da anni ed anni a questa parte, i Magnetic Fields bisognerebbe aprire la testa di Stephin Merritt e vedere che c’è dentro.
Ma trovare un senso a tutte le direzioni schizofreniche della band è inutile, meglio abbandonarsi al flusso di coscienza. D’altra parte questa – e solo questa – era la via attraverso 69 Love Songs. E il loro continuo vagare tra sintetizzatori e chitarre, tra ukulele e drum machines va accettato come un assioma.
E così Love At The Bottom Of The Sea, undicesimo capitolo della saga, (oltre un titolo fantastico) trasuda pop disturbato e nervosismo: quindici brani e il più lungo ferma a 2’38”.
Sono gocce d’amore atonale, come è sempre stato nella storia dei Magnetic Fields: c’è la indie.disco di God Wants Us To Wait («hai ragione, dovevo dirtelo prima / e non ora che siamo nudi sul pavimento / e anche se sarebbe un modo splendido di concludere la serata / ti amo, ma Dio vuole che aspettiamo»), l’ode all’amore transgender (Andrew In Drag), il vaudeville martellante (The Horrible Party) e così, con la voce cavernosa di Merritt e le altre annegate, appuntite, irritanti fino al buco nero che porta via tutto, All She Cares About Is Mariachi.
Love At The Bottom Of The Sea è una raccolta di motivetti da mandare a memoria, che però nascondono un abisso umano inquietante.
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