Dischi

Bonobo – Migration

Probabilmente la storia non ricorderà Simon Green al pari di Brian EnoBurial, Autechre, o Massive Attack: Bonobo non è un innovatore; piuttosto, esplora le potenzialità di suoni già presenti, li piega sul proprio orizzonte e li plasma creando un immaginario mai troppo distante.

Parrebbe una precisazione impietosa, ma in effetti non c’è nulla di sbagliato e non c’è nulla che non va in Migration, fresco e naturale seguito di The North Borders.

Entrambi questi album paiono portare con loro una sorta di elemento naturalistico: lì era l’aria qui la terra, intesa anche come globo terrestre, non solo nel senso di materia – come parrebbe invece suggerire ad una prima occhiata lo strepitoso artwork firmato da Neil Krug, con la sua inconfondibile fotografia vivida.

Migration è molto più leggero del suo titolo – che è una parola oggi vestita di discussi significati (geo)politici – ma non deve neppure caricare di aspettative: il suo suono nasce dall’infatuazione di Bonobo per il deserto del Mojave, da un alba che pare non arrivare mai, piuttosto che da peregrinazioni attraverso luoghi lontani e culture diverse (di cui infatti c’è solo minima traccia).

Per oltre un’ora però, questo album è fatto di notevoli altalene ritmiche: il downtempo tende a liquefarsi verso l’ambient, fino a che il successivo battito dubstep prende il sopravvento deciso, magari aiutato da elementi percussivi grezzi, che sembrano provenire da qualche civiltà lontana, o da trame sintetiche che nemmeno i Daft Punk di Discovery (Outlier); il risultato è una sensazione panoramica: proprio come la Terra osservata dalla distanza o una roccia vista da lontano, il primo ascolto dà una lunga visione d’insieme che nasconde la sua reale frammentarietà.

Probabilmente Bonobo ha le potenzialità di fare di più, di risultare ancora più interessante,  e questo fa incazzare; però Migration, con il suo fascino hazy, è il lungo attimo della scoperta ancora incompresa: una sensazione preziosa per la sua ingenuità, da godersi il più possibile.