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Keith Richards – Crosseyed Heart

keith_richards_crosseyed_heartDi trovarsi per le mani un disco solista di Keith Richards è capitato altre due volte e sempre con i Rolling Stones in pausa (e nel caso di specie non mettono piede in studio – ad oggi – da  A Bigger Bang).

Con i suoi tempi (sono passate ventitré primavere da Main Offender) i suoi modi e i suoi compari, tra una pausa e l’altra degli infiniti tour, Keef si lascia andare a quell’irrefrenabile desiderio di lavorare in studio, suonare con calma le sue chitarre, uscire dalla banda più celebrata della storia e calarsi in un’altra veste.

Nel caso di questo Crosseyed Heart, in una veste che con l’età gli è più consona: quella di cantore di un mondo che non forse esiste più, fatto di polvere e vecchie sale da ballo, strade lungo le quali vendere l’anima al diavolo, imbrogli, nebbie e paludi.

Guardate quelle mani sulla copertina del disco, guardate la sinistra – quella che preme sui tasti della sua Fender da più anni di quanti possiate ricordarne: sta tutto lì in quella consunzione.

Un tempo anche precedente all’epoca d’oro del suo idolo Chuck Berry: da sempre, Keith Richards l’ha sorpassato puntando direttamente alle fonti, al blues di Chicago e al blues della foce del Mississippi.

Certo rimane un ragazzaccio infatuato del rock’n’roll, come dimostrano il singolo Trouble o le varie Heartstopper, Substantial Damage, Amniesia (efficaci, ma occhio: non c’è nessuno spunto lontanamente paragonabile ai riff che l’hanno reso immortale); c’è persino qualche traccia dell’amatissimo levare giamaicano (Love Overdue di Gregory Isaacs) e qualche flirt con il soul (Lovers PleaIllusion, con la complicità di Norah Jones, e la quasi perfetta Something For Nothing). 

Crosseyed Heart non è affatto un disco nostalgico né un album che vuole collocare il suo autore nel presente – come la serie American di Johnny Cash, per intendersi – ma il suo baricentro pare poggiare altrove, nella sofferente title-track, nell’ennesima rilettura di Goodnight Irene (ripescata anche da Eric Clapton un paio di anni fa in Old Sock), nel tradimento di Robbed Blind (a proposito, non sembra un po’ Wonderful Tonight proprio di Clapton?), nell’elettricità rovente di Blues In The Morning.

Questione di radici, radici che hanno avvolto anche la voce di Keef, tanto che non lo diresti che si tratta pur sempre di quel bambino di Dartford che tentava di accaparrarsi i dolcetti più buoni tra quelli razionati nell’immediato dopoguerra inglese.

O forse no, Keith è sempre lui: solo, crescendo ed invecchiando – nonostante la sua vita impetuosa o proprio grazie a quella – è sempre più sprofondato in quella realtà alternativa che lo ha svezzato.

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