Cosa si può rimproverare a Ruben?
Me lo sono chiesto dopo aver ascoltato questo Il Lavoro Più Duro, che esce il prossimo 1° maggio, ad un annetto di distanza da Il Rogo Della Vespa.
No perché d’esser banale no, d’esser pigro nemmeno: è già così abbiamo schivato i due peccati mortali dei musicisti.
Di non saper suonare o scrivere o di non metterci il cuore – figuriamoci!
L’impazienza, e vecchiaia, nemmeno quelle: perché sì, dentro Il Lavoro Più Duro si sentono tutti i quarantacinque anni che lui dice di averci messo a scriverlo, ma è un pregio.
Ecco, si potrebbe forse rimproverare a Ruben di non essere attuale: ma sarebbe una critica superficiale ed infondata, basata su un concetto di attualità molto modaiolo.
In verità Il Lavoro Più Duro è una galleria di quattordici personaggi il cui effetto è il più lontano possibile dal guardare quadri al museo. Non c’è traccia di polvere alcuna, questa è l’attualità: gente che si muove nell’ombra di una società oscura, con le proprie pene, i difetti, le furberie e le aspirazioni.
Ruben codifica dati, sensazioni, impressioni e visioni raccolte in una vita intera da curioso osservatore e acuto menestrello.
Novità non da poco, si getta alle spalle l’amato rock’n’roll per darsi all’acustico, ma non ci s’inganni: la tavolozza è molto più ampia della formula cantautorale tipica chitarra/voce (tanto lo sfizio di citare The Passenger se lo toglie, su Disoccupato); tra fiati r&b e orchestrazioni, le trame di questo disco sono ricchissime.
Il Lavoro Più Duro è una bellissima sorpresa: perché l’assenza di retorica e la riduzione ai minimi termini dell’aspirazione a voler essere Leonard Cohen, unite ai picchi di poesia ironica e arguta, ne fanno il miglior lavoro di Ruben.
Lui, che di lavoro non farà il cantautore, ma gli riesce benissimo.
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