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The Black Keys – Turn Blue

black_keys_turn_blueRegistrato ad Hollywood nello stesso tempo che di solito i Black Keys impiegavano per scrivere due dischi, annunciato da un tweet di Mike Tyson (!), con un singolo presentato per la prima volta in tv a Che Tempo Che Fa ed un titolo preso in prestito dal presentatore di una tv locale di Cleveland, Turn Blue è l’ottavo album di Dan Auerbach e Patrick Carney, il primo da quando le cose hanno iniziato a farsi davvero grandi (e strane).

Da quando, cioè, El Camino ha sbancato ai Grammys, Auerbach è diventato un produttore richiestissimo (da allora ha messo le mani sulla risurrezione di Dr. John, sull’ultimo di Bombino, e sul prossimo di Lana Del Rey), moltissimi brand hanno usato la propulsione di Lonely Boy, da quando – tra le altre cose – i due hanno diviso il palco con gli Stones e Carney ha intrapreso una bagarre infinita, su twitter, con Justin Bieber (e i suoi fan invasati).

Quindi questi due li si attendeva un po’ al varco: se Brothers era una densissima rivendicazione soul/blues e El Camino una gentile concessione al rock’n’roll più classico, con un sacco di groove, quale sarebbe stato il passo successivo?

Il passo successivo, Turn Blue, inizia con la più lunga canzone del duo sinora: Weight Of Love sono quasi sette minuti cupi ed ipnotici nei quali si passa dalla psichedelia, dal ritmo scandito da basso / chitarra acustica / organo, ad un refrain corale, al lunghissimo assolo che riporta alla mente certi passaggi dei Crazy Horse.

E così prosegue, con un mood sufficientemente scuro da rassicurare tutti sul fatto che i Black Keys non abbiano fatto alcuna concessione ai sorrisi, alla FM, al jet set; tanto che, di ascolto in ascolto, Fever – scelta come primo singolo – emerge come il classico specchietto per le allodole dato in pasto alle radio ma assolutamente non rappresentativo del mondo sonoro di Turn Blue. Stesso discorso per Gotta Get Away – orecchiabilissima, perfettamente all’incrocio tra gli Stones e i Creedence Clearwater Revival -, che per stessa ammissione del duo, piazzata lì in coda è «solo una buona ragione per riascontare l’intero album da capo».

Qui di no, non ci troviamo di fronte ad un disco ad alta digeribilità, nulla che possa santificare i Black Keys al pubblico delle arene. Ed è meglio così, ovviamente.

Turn Blue – che ancora è prodotto al 50% con Danger Mouse – ha un suono grasso e oscuro, a tratti è costruito su una psichedelica densa e sulla perdita, la mancanza, la lontananza. Ma non è depresso né deprimente, anche se non ricerca a tutti i costi le FM.

Là fuori però sarà certamente pieno di nostalgici, gente (fan o meno) che continua a rimpiangere le loro origini grezze e garage: ecco, questo bisogna toglierselo dalla testa, che i due possano tornare ai suoni e alla sporcizia di Rubber Factory o The Big Come Up (quanto a produzione; quanto a scrittura sarebbe una regressione). Sono diventati troppo grandi per farlo, forse.

Ma ad ascoltare Turn Blue sembra che, in realtà, molto più semplicemente non ne abbiano alcuna voglia.

2 comments on “The Black Keys – Turn Blue

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