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Led Zeppelin – Presence

led_zeppelin_presenceÈ ingiusto ricordare Presence solo per l’artwork firmato da Storm Thorgerson, perché la fotografia di quella famiglia tranquilla imbambolata ad osservare un obelisco nero è sì un chiaro omaggio a 2001: Odiessea Nello Spazio, ma – combinata con il titolo scelto per l’album – altro non significava che (nonostante tutto) i Led Zeppelin nel 1976 erano ancora vivi e vegeti e non potevano essere ignorati.

Certo non è facile, con una discografia come quella di Jimmy Page & co., prestare attenzione ad un album che non è evidentemente in grado di competere con molti dei suoi predecessori,  suonato dal vivo molto poco e – appena dopo la sua uscita (marzo) – oscurato da The Song Remains The Same (ottobre), che dava al pubblico ciò che il pubblico voleva: le grandi canzoni e la potenza cosmica dei Led Zep dal vivo.

Però Presence è l’ultimo spunto significativo della band e non è assolutamente cestinabile: registrato a Monaco di Baviera in appena 18 giorni (anche perché lo studio serviva subito dopo ai Rolling Stones!), riportò i Led Zeppelin ad una formula essenziale fatta di chitarra/basso/batteria, senza null’altro, senza neppure un suono acustico o una tastiera.

In quel di Monaco di Baviera (Musicland Studios), tutte le sovraincisioni di Jimmy Page furono completate in un paio di notti, la voce di Robert Plant registrata durante la convalescenza dall’incidente d’auto occorsogli nell’agosto del ’75 a Rodi (nel senso che era costretto sulla sedia a rotelle): un’urgenza compositiva e creativa che vibra nella terrificante ritmica di John Paul Jones e John Bonham.

Su Presence il songwriting non è effettivamente sempre a fuoco, ma il fulcro è l’esecuzione: un suono indomito, cattivo ma perfettamente bilanciato (e di questo va dato merito a Page, come sempre nelle vesti di produttore).

A Plant, che ancora oggi non è particolarmente soddisfatto della resa della sua voce, andrebbero ricordati (almeno) l’immensità del suo gigioneggiare in stile Elvis sull’unico singolo estratto, l’anfetaminica Candy Store Rock (che pare appunto un relitto anni ’50 trattato come solo i Led Zeppelin avrebbero potuto), l’espressività di Achilles Last Stand – che con i suoi continui cambi e crescendo disseminati in 10′ ed oltre, lì in apertura detta il tono dell’intero disco ed entra dritta tra le epiche della band – e la confessione di aver venduto effettivamente l’anima al diavolo su Nobody’s Fault But Mine (un piccolo furto a Blind Willie Johnson, ché se si dovesse mai scegliere dovrebbe finire tra le migliori assurdità di Page).

La particolarità di Presence è che non ha nulla di cosmico.

È meravigliosamente ancorato a terra e la sua essenzialità (soprattutto a confronto con Physical Graffiti, immediatamente precedente) chiude il cerchio con il debutto (Led Zeppelin): capaci di mettere in fila sette dischi in otto anni, se i Led Zep effettivamente si fossero fermati per sempre dopo questo album sarebbe stati (se possibile) ancora più grandiosi.