Dischi

Slowdive – Souvlaki

Ora del 1993, la Creation sembrava aver perso molto dell’iniziale entusiasmo per gli Slowdive, nonostante l’ottimo risultato (artistico e commerciale) di Just For A Day, o quantomeno pareva velatamente intenzionata a spingerli verso altre direzioni («per il secondo disco non scriverà solo Neil, giusto? Scriverete tutti.. no? […] Che ne dite di un look più aggressivo, tipo pantaloni di pelle e quella roba lì?»).

Quindi quando portarono le prime demo del nuovo album (roba uscita dopo aver ossessivamente ascoltato i lavori dei Joy Division e del Bowie di Low e Lodger) al primo ascolto Alan McGee li costrinse a buttare via tutto («I see you’ve got no songs, they’re all shit!») e a ricominciare da capo. Qualche mese dopo rispose semplicemente: «fate quello che vi pare»; non un rande atto di fiducia, sembrava più che altro esasperazione. In ogni caso la Creation lasciò davvero fare a loro e non mise bocca in nulla.

Il punto è che dal 1991 erano successe molte cose. All’interno della band, prima tra tutte, la rottura tra Neil Halstead e Rachel Goswell: gli Slowdive non erano più una gang così solida; poi semplicemente l’anagrafe: i ragazzi stavano crescendo (avevano esordito appena ventenni) e quindi ampliando i loro orizzonti e le loro curiosità. Il mondo, dal canto suo, aveva ora i Nirvana in alta rotazione (e di seguito tutto il carrozzone grunge, la moda del momento); in Inghilterra l’attrazione per lo shoegaze si stava spegnendo in favore di una riscoperta di suoni più direttamente mutuati da almeno due/tre decenni prima (il glam degli Suede e i primi passi pop dei Blur). Insomma gli Slowdive in quel momento rischiavano di non avere alcun pubblico al quale presentare la loro nuova creazione.

Fu così che Halstead si esiliò da qualche parte nel in campagna («con la chitarra ed un registratore a quattro piste, cercando di mettere piede fuori il meno possibile») e riemerse con molti dei brani che poi finirono su Souvlaki, comprese Sing e Here She Comes, che nella loro versione definitiva si sarebbero avvalse della collaborazione di Brian Eno: come in una favola, i ragazzi gli avevano scritto una lettera chiedendogli di produrre il nuovo album e lui incredibilmente aveva risposto di conoscerli molto bene e che avrebbe collaborato volentieri su qualche pezzo più che farsi carico dell’intero disco.

Non sapremo mai se Souvlaki è in effetti il “disco pop” che gli Slowdive avevano in testa per dare un seguito a Just For A Day, fatto sta che nel tempo è diventato un classico e (soprattutto) un vero e proprio manuale da seguire per tutte quelle band perennemente a caccia di un suono dreamy (ascoltate di fila questo album e poi la doppietta Teen Dream e Bloom dei Beach House, poi ne riparliamo).

All’apice della ricerca di questa ricercata accessibilità Alison, 40 DaysWhen The Sun Hits, Altogether e Machine Gun: è un suono doloroso ed etereo, ma molto radiofonico; nuove litanie che si riverberano sull’acqua al tramonto, in un turbinio di ricordi in ordine sparso, ed è come scovare finalmente qualcosa attraverso le nubi colorate che avvolgevano Just For A Day.

Altrove, invece, gli Slowdive sono già proiettati verso il futuro prossimo: Melon Yellow, Sing, Here She Comes lasciano intravvedere gli orizzonti inquietanti e traslucidi che finiranno per rendere il successivo Pygmalion il loro ultimo album per molto tempo.

Due anime che collidono in Souvlaki Space Station, che si staglia imperiosa poco oltre la metà dell’album oscillando tra onde anomale e botte psichedeliche sino a chiudere sottilissima e affilata.

Souvlaki pare contenere in sé l’intero shoegaze ed il suo senso profondo: un’anima di rumore, trafitta dalla luce.