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Radiohead – KID A

kid_A_radioheadRicordo un giorno di aver chiuso tutte le riviste che parlavano di questo album e, maturata la convinzione che non mi sarebbe affatto piaciuto (o meglio, di non avere abbastanza fiducia nei Radiohead per seguirli in quella che molti descrivevano come un’astrusità), di essere saltato sulla mia bicicletta e di essere corso a comprarlo.

Poi, ricordo di averlo scartato immediatamente lì fuori dal negozio; di averlo messo nel lettore cd portatile e di aver premuto play e di aver pedalato fino a casa ascoltandolo. Non ero ancora arrivato e il mio scetticismo era diventata fede al primo – superficiale – ascolto.

Sono passati 15 anni e Kid A nel frattempo da oggetto misterioso è diventato una specie di classico e compare in vetta a quasi tutte le classifiche dei migliori dischi pubblicati negli anni zero.

L’elemento che pesa più di tutti su questo riconoscimento mi pare non sia soltanto il suo contenuto, ma anche la sua genesi ed il suo significato come pura espressione artistica. Insomma, la frattura che Kid A ha provocato nella discografia (anzitutto) dei Radiohead ha un peso specifico notevole.

Quello di cui ancora non mi capacito è quale possa essere il valore di questo disco in termini assoluti: a cosa possiamo paragonarlo? A Sgt. Pepper’s? A The Dark Side Of The Moon? Ad Incunabula e Endtroducing…? Forse a Kind Of Blue e A Love Supreme? A Nevermind? Dove si colloca?

È sufficiente il fatto che quando tutti si aspettavano un seguito sulla falsariga di Ok Computer, Thom Yorke e i suoi sono spariti per due anni, abbiano fatto tabula rasa e abbiano pubblicato un album composto rastrellando e mettendo insieme frammenti sonori provenienti da infinite session digitali (le stesse dalle quali emergerà l’anno dopo Amnesiac)?

Non lo so davvero, ma se relativizziamo – se restringiamo l’orizzonte – è tutto molto più semplice, perché quella spavalderia non sarebbe stata gran cosa se il suono di Kid A non fosse tanto speciale.

Speciale perché utilizza stilemi e apparecchiature elettroniche per creare un linguaggio molto meno intricato di quello che potrebbe sembrare; parliamoci chiaro: Kid A ha portato alle orecchie delle masse (un milione e più di copie vendute negli States non sono poca roba, e da questa sponda dell’Atlantico è entrato in tutte le top ten) un suono astratto che altrimenti una grande fetta di pubblico avrebbe probabilmente continuato ad ignorare.

Ecco forse in quali termini assoluti si può coglierne il valore nella Storia: nell’aver creato una breccia al di là di chi – a caldo – lo ha ritenuto incomprensibile, o un suicidio commerciale per liberarsi del contratto con la EMI (Nick Hornby).

Kid A ha il merito di aver messo in comunicazione due mondi, peraltro scontentandoli entrambi nella sua ricerca di un minimo comun denominatore: troppo semplicistico per gli amanti dell’elettronica, troppo estremo invece per l’ambiente pop-rock.

E lo fa ancora, con i suoi pattern dolci e le sue voci al contrario; con la pura bellezza funerea su cui scivola via (Motion Picture Soundtrack), con la sua improbabile apertura («everything in its right place», dice Yorke: è evidente che non è così), con qualche chitarra offuscata (Optimistic) e una linea di basso che si mischia al jazz (The National Anthem) e con un ritmo glaciale che da allora è capace di smuovere sterminate platee (Idioteque).

Non da ultimo, a partire proprio da questo album i Radiohead hanno insegnato astruse tecniche di marketing ad un’intera generazione.

Quindici anni sono passati, e siamo ancora davanti al più grande esercizio di smaterializzazione mai riuscito.

N.b.: The National Anthem è tra i nostri 35 riff di basso preferiti.

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