Appunti Cover Versions

Cover Versions 015: Cowboy Junkies

 

Mentre scriviamo, i canadesi Cowboy Junkies hanno da poco pubblicato Songs Of The Recollection: una raccolta di cover, diverse delle quali già disseminate nel corso della loro lunga carriera.

Della band, della sua innata propensione per il tessuto del songwriting nordamericano, ci si accorse grazie a The Trinity Sessions (1988) – un disco oggi leggendario, registrato attorno ad un singolo microfono il 27 novembre ’87 nella Chiesa della Santissima Trinità in quel di Toronto e che mischia originali, rivisitazioni di oscuri brani tradizionali e nuovi arrangiamenti di brani country e folk.

Scegliere tra le cover suonate Cowboy Junkies – che da allora non hanno mai abbandonato la formula – è particolarmente difficile. Abbiamo prima circoscritto a quelle che preferiamo, e con le quali abbiamo più dimestichezza, e poi ci siamo ulteriormente limitati. Queste, insomma, per noi sono essenziali.

I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You (Bob Dylan, 2020): ché poi non è scritto sulla pietra che i Cowboy Junkies debbano guardare al passato. Certo, questo è presente (o passato molto prossimo) solo cronologicamente, se non altro perché è un brano di Dylan che sta su Rough and Rowdy Ways del 2020. Considerarlo contemporaneo è comunque difficile trattandosi (appunto) del buon Bob – che al solito scrive con un’atmosfera ben polverosa. In questo caso, nell’originale, sembrano gli anni ’40 del secolo scorso (sarà anche perché è in 6/8?). Michael Timmins e i suoi non fanno anche che portarla avanti di un paio di decenni, non di più, e sta bene anche così.

Ooh Las Vegas (Graham Parsons, 1974): qui siamo semplicemente oltre. L’originale di Graham Parsons è un country anfetaminico e funambolico, che sfreccia come un treno zeppo di serpenti attraverso il deserto. Ed è fantastico come invece i Cowboy Junkies la prendano, la narcotizzino, la colmino di echi e riverberi accentuandone il taglio disperato: ne esce una cosa assolutamente affascinante a mezza via tra certe suggestioni dei Cocteau Twins ( Heaven Or Las Vegas) e i War On Drugs.

Sweet Jane (The Velvet Underground, 1970): più che essenziale è inevitabile. È la rivisitazione più famosa dei Cowboy Junkies, se ce n’è una per cui saranno ricordati è questa. Quella autentica, scritta da Lou Reed per i suoi ultimi Velvet Underground (Loaded) è di una dissolutezza misurata e grezza; quella usata dai Mott The Hoople per aprire All The Young Dudes era forse più aderente a quanto Lou avesse in mente, o comunque per forza di cose risente dello stesso tocco glam che Bowie usò su Transformer (e a Lou ovviamente andava benissimo, v. la sua riappropriazione su Rock N Roll Animal). Poi appunto sul finire del decennio successivo arrivarono i Cowboy Junkies e la resero soffice soffice, tragica e gentile.

No Expectations (The Rolling Stones, 1968): la firmano Jagger e Richards, ma non sarebbe diventata un classico degli Stones senza la chitarra slide di Brian Jones. È praticamente il suo testamento. I Junkies la approcciano con molto rispetto e un po’ di innovazione: la slide è proprio lì, bellissima e indispensabile, basso è profondissimo e c’è anche la batteria (spazzolata), assente nell’originale, manca il piano incredibile di Nicky Hopkins, ma la voce femminile dà tutt’altra prospettiva. La morale è che sembra scritta per loro.

Don’t Let It Bring You Down (Neil Young, 1970): uno non se lo aspetterebbe, di dover riconoscere molto credito a Michael Timmins per come riesce a maneggiare tutti i versanti più scoscesi del suono di una chitarra. Fuzz, feedback, echi e distorsioni non sono certo la prima cosa che viene in mente pensando al repertorio dei Cowboy Junkies. Però è con questi trucchetti che tratta Don’t Let It Bring You Down di Neil Young e trasportandola dai seventies all’alternative della prima metà dei ’90 in meno di 4′ 30″. Ad ulteriore conferma che i Junkies vanno annoverati tra i più grandi interpreti di Young, solista o meno.

Seventeen Seconds (The Cure, 1980): sembra una scelta strana, apparentemente i gradi di separazione tra i Cowboy Junkies e i Cure non sono pochi; e anche perché tra tutte quelle che avrebbero potuto pescare, Seventeen Seconds non sembra particolarmente significativa. Però secondo Robert Smith diciassette secondi sono sufficienti a misurare la vita, una manciata di attimi che possono comunque rivelarsi decisivi. Alla fine tutto torna almeno nel senso che i Cowboy Junkies e i Cure condividono una certa propensione, e familiarità, con i lati più tragici e oscuri dell’esistenza (finché dura).

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Nelle puntate precedenti:
Cover versions 001: Verdena 
Cover versions 002: Bruce Springsteen 
Cover versions 003: The Black Keys 
Cover versions 004: Paul Weller
Cover versions 005: R.E.M.
Cover versions 006: Johnny Cash
Cover versions 007: The Clash
Cover versions 008: The Who
Cover versions 009: Galaxie 500
Cover versions 010: Nirvana
Cover versions 011: Sonic Youth
Cover versions 012: Teenage Fanclub
Cover versions 013: The Jesus & Mary Chain
Cover versions 014: David Bowie