Appunti Cover Versions

Cover Versions 014: David Bowie

Il fatto è che l’arte prodotta da David Bowie ha un peso specifico tale che in qualche modo fa strano pensare che lui abbia trovato il tempo e lo spunto per curarsi di rimodellare quella altrui.

Ma è avvenuto: le prolifiche collaborazioni con Lou Reed (Transformer) e Iggy Pop (The Idiot, Lust For Life) – dalle quali entrambi sono usciti più che rivitalizzati – sono lì a testimoniarlo.

Da un’altra prospettiva, nel ’73 Bowie mise insieme un intero album di cover, Pin Ups. Certo, l’impressione generale è che le interpretazioni di brani altrui (alcune riuscite, altre meno) rimangano una nota a margine del suo percorso; comunque, qui di seguito trovate una selezione delle nostre preferite.

Trying To Get To Heaven (Bob Dylan, 1997): iniziamo da questa rivisitazione del Dylan di Time Out Of Mind, datata 1998 e pubblicata giusto qualche giorno fa insieme a quella di Mother di John Lennon. Lì dove c’era un soffuso crescendo di fiati, Bowie mette delle chitarre, sottili ma graffianti; poi aggiunge un coro, chiarisce la voce e le parole (perché non ce ne voglia Bob, ma – insomma – da decenni si capisce solo la metà di quello che dice) e fa impressione, oggi e anche un po’ stupidamente, sentire Bowie che racconta di come cerca «di arrivare in paradiso prima che chiudano i cancelli», sapendo la fine della storia.

 

 

Dancing In The Street (Martha & The Vandellas, 1964): ok, questa è più che altro farina del sacco di Mick Jagger. Ma tolta la voce di Bowie dal mix, cosa ne rimarrebbe? L’intonazione con cui entra da «there’ll be swinging swaying records playing..» in poi è decisiva, detta il tono carefree dell’intero pezzo, contrapponendosi all’aggressività di Mick. Tolta la presenza di Bowie dal video – improbabile, ma tutt’ora iconico – che ne sarebbe? Probabilmente solo l’ennesima rilettura del classico firmato Martha & The Vandellas.

Let’s Spend The Night Together (The Rolling Stones, 1967): a chiudere e gli occhi e pensarci un attimo, altre due sono le cover dello scandaloso classico degli Stones che vengono in mente. Quella di Joe Simon, in chiave funky/disco datata ’76 e quella di Muddy Waters su Electric Mud, che come il resto di quell’album sembra appartenere più a Hendrix che altro (salvo, ovviamente, il vocione). Quella di Bowie, a conti fatti, è la miglior rilettura possibile di Let’s Spend The Night Together: guidano la chitarra esuberante ed il basso in primo piano, la voce è urgente e ugualmente sexy. Di fatto, il brano appartiene più al glam che a qualunque altra sfumatura del rock’n’roll.

I’ve Been Waiting For You (Neil Young, 1969): l’originale sta sul debutto solista di Neil Young, e suona sia come un omaggio a Hendrix sia come anticipazione di quello che sarà il futuro elettrico dell’autore con i Crazy Horse. Bowie ha sempre usato come propria bussola e fonte d’ispirazione il percorso artistico di quelli che considerava essere i suoi pari e tra questi, appunto, Neil Young. Aveva anche già familiarità con I’ve Been Waiting For you, per averla portata in tour con il progetto Tin Machine a fine ’80; la ripescò al momento di mettere insieme Heathen (2002), e pare che l’ispirazione che portò a rivederne la struttura fu l’interpretazione che ne avevano dato qualche anno prima i Pixies (curiosamente, Heather contiene anche una loro cover, Cactus). Se il trattamento che Bowie riserva a questa canzone vi sembra furioso, considerate che la chitarra è opera di Dave Grohl.

Bang Bang (Iggy Pop, 1981): Party è uno di quegli album di Iggy Pop dei quali non si ricorda nessuno e forse è meglio così. Lo pubblicò nel 1981 ed è frutto della collaborazione con Ivan Král, nel decennio precedente membro fisso della band di Patti Smith. Bang Bang fu scritta – ostentatamente – per fare da singolo trainante a quel disco. Stranamente, qualche anno dopo, divenne una delle pochissime cose che potrebbero essere salvate da Never Let Me Down, uno dei punti più bassi di Bowie.

I’m Waiting For The Man (The Velvet Underground & Nico, 1967): ne esistono (almeno due versioni), in qualche modo tra loro distanti anche se unite dall’ammirazione di Bowie per la scrittura di Lou Reed. Una, in stile marcatamente glam, fu registrata nel settembre del ’71 per la BBC ed è poi finita su Bowie At The Beeb; l’altra sta sull’album che racconta il concerto al Nassau Coliseum del ’76 durante il tour di Station To Station. Tra le due pochi anni ma un abisso artistico di mezzo. Scegliamo la seconda – quella che viene da Live Nassau Coliseum ’76, per l’appunto – perché la performance è a dir poco gloriosa, per il tentativo (riuscito) di Bowie di mantenere una sorta di stile spoken nonostante la ritmica gommosa e cantilenante tipica del periodo e per la chitarra di Carlos Alomar.

I Feel Free (Cream, 1966): Black Tie White Noise (1993) di cover ne contiene addirittura quattro (a dimostrazione di un’ispirazione che – almeno rispetto al decennio precedente – era tornata, ma poi nemmeno tanto) e questa è la più significativa. Il brano aveva già trovato posto ricorrente nei concerti degli Spiders From Mars, ma mai su disco. Qui è una sorta di doppio (tragico) tributo a due fan accaniti dei Cream presenti nella vita di Bowie: al fratello acquisito Terry Burns, che si era tolto la vita nel 1985, e a Mick Ronson – già terminale al momento di registrare la sua chitarra  qui e che sarebbe scomparso appena venti giorni dopo la pubblicazione di Black Tie White Noise. Inutile dire che il gioiellino psycho-pop firmato da Bruce, Clapton e Baker viene completamente sconvolto dal tripudio di drum machine incalzanti e cantato da crooner.

_________________
Nelle puntate precedenti:
Cover versions 001: Verdena 
Cover versions 002: Bruce Springsteen 
Cover versions 003: The Black Keys 
Cover versions 004: Paul Weller
Cover versions 005: R.E.M.
Cover versions 006: Johnny Cash
Cover versions 007: The Clash
Cover versions 008: The Who
Cover versions 009: Galaxie 500
Cover versions 010: Nirvana
Cover versions 011: Sonic Youth
Cover versions 012: Teenage Fanclub
Cover versions 013: The Jesus & Mary Chain